Ritratto in piedi

Ritratto in piedi

Gianna Manzini, Ritratto in piedi.

“La lèggevo e imparavo a raccogliermi l’anima e a tenerla in fronte come la lampada dei minatori “. Così Gianna Manzini scriveva a proposito della sua lettura di Virginia Woolf.
Avevo scoperto Gianna Manzini tra le pagine di Le lettere del mio nome di Grazia Livi e lei era l’unica per me sconosciuta tra tutte le scrittrici di cui Grazia Livi parla in quel racconto splendido di noi , del nostro tempo scandito dalle vite e dalle parole delle scrittrici. Quando la casa editrice L’Ortica lo ha ristampato nel 2011 ho potuto finalmente leggerlo. E in questi giorni lo sto rileggendo e ammirando la qualità della scrittura e lo stile sontuoso e immaginifico. Ve lo consiglio vivamente anche per questo, oltre che per la vicenda umana che racconta e L’intreccio tra biografia e scrittura.

Si tratta dell’ultimo  romanzo di una scrittrice raffinata, scritto all’età di 75 anni, quattro anni prima della sua morte avvenuta nel 1974. Il romanzo rappresenta il pagamento di un debito che era stato sempre rimandato: raccontare la vita di suo padre, amatissimo, e assumersi la colpa di non averlo fatto prima, ma così facendo usare parole come rimorso e vergogna. Il libro si compone di tre parti: una premessa, in cui racconta l’albero genealogico del padre, da quali antenati ha ereditato i tratti della sua personalità; una seconda parte che si intitola Atto di contrizione in cui mette a nudo l’impaccio che le ha sempre impedito di affrontare l’impresa .”Può darsi che scrivendo, riuscendo ad abbandonarmi, prima o poi io guarisca della cosa sgomentante, forse crudele…Allora a mia stessa insaputa, d’improvviso, m’imbatterò nella frase, nella parola, nel ricordo liberatore…Adesso comincio davvero questa storia-ritratto.Mi provo.” La terza parte è il Ritratto in piedi di Giuseppe Manzini, un uomo mite e coraggioso, che ha scelto di lottare dalla parte degli ultimi aderendo ai principi dell’anarchia in quelle territorio del pistoiese dove già dai primi anni ‘20 schierarsi seguendo quegli ideali significava esporsi alle ritorsioni dei fascisti. E così accadrà: si separerà dalla famiglia borghese, dalla moglie che lo ama riamata e dal figlioletta amatissima, che cresce facendo propri gli insegnamenti paterni ( meravigliose la parti in cui la scrittrice in un andirivieni nel tempo ricorda quanto aveva imparato da lui a proposito dell’anima degli animali ). La narrazione corre avanti e indietro nel tempo e raccontando il padre Gianna Manzini racconta se stessa, fino alle ultime sue frequentazioni con lui, sempre più rade e distaccate, segnate da una sorta di vergogna per lei, giovane universitaria, di mostrarsi insieme a quell’uomo povero e malvestito, che viveva con poco e di piccoli lavori, dopo che i fascisti gli avevano distrutto la bottega di orologiaio. Per arrivare finalmente a nominare la parola rimorso. Manzini morirà nel ‘25 per un infarto dopo un assalto subito da un manipolo di camice nere.E dovranno passare cinquant’anni prima che “Giannina” arrivi a mettervi riparo. Alla fine del libro la vediamo accovacciata accanto alla lapide del padre, a tentare di estirpare le “erbacce” che la ricoprono, per poi “udire” la sua voce che la esorta a vedere la bellezza che si nasconde ovunque, anche in quelle umili e inutili erbe di campo.

 

 

Inviato da iPad