Addio fantasmi
Non mi capitava da parecchio tempo di immergermi in una lettura così coinvolgente, una di quelle in cui si entra immediatamente nelle pagine di una storia che ti parla come se fosse la tua anche se non lo è e nemmeno le somiglia un poco, e tu non hai attraversato nessuna delle tempeste che hanno segnato la vita di Ida, la giovane protagonista del romanzo Addio fantasmi, di Nadia Terranova.
E’ stata una lettura calma e insieme movimentata: una prima volta senza prendere respiro, ma alzando la testa spesso e fermandomi a lasciar decantare le emozioni; poi è stata necessaria una pausa di alcuni giorni nel corso dei quali non mi lasciava il pensiero di quello che avevo letto. E poi di nuovo a sfogliare le pagine ricominciando da capo, con la matita in mano a sottolineare e un quaderno aperto vicino. La storia è ambientata a Messina, città dove la protagonista non vive più da molti anni, salvo sporadici ritorni per le feste comandate. Ora vive a Roma, dove ha un lavoro (inventare per la radio finte storie vere), una casa in affitto con una persona, un uomo, suo marito (in questo modo viene introdotto Pietro nelle prime pagine del romanzo). Una vita apparentemente normale.
Che però normale non è, perché non potrebbe esserlo una vita in cui l’evento accaduto ventitré anni prima alla bambina, che allora ne aveva tredici, continua ad agire e invade i pensieri, l’immaginario, gli incubi e i sogni notturni; definisce il rapporto con la realtà e con il proprio corpo. In quella città da cui è fuggita all’età di vent’anni un giorno la madre le chiede di tornare: la “loro” casa si sta disfacendo, l’acqua ha eroso il solaio, urgono lavori, occorre svuotare le stanze, e con l’occasione decidere cosa conservare e cosa buttare, di tutti gli oggetti che con gli anni si sono accumulati. “Bisognava che tornassi per scegliere cosa lasciare andare”. Così inizia il romanzo, con Ida che cerca di ingannarsi pensando che sarà facile, perché non c’è niente che voglia conservare della sua vita precedente tranne una scatola di ferro rosso nascosta in fondo a un cassetto. Una scatola il cui contenuto ci verrà svelato solo alla fine. Sono molti i fantasmi con cui Ida deve fare i conti: ha imparato strategie e depistaggi da quando aveva tredici anni, da quando un mattino suo padre si è alzato, si è vestito, è uscito di casa e non è più tornato. Da quel momento lei e la madre devono convivere con un lutto senza tomba, con un tempo sospeso, con l’impronta di una colpa. Con un passato che è sempre presente, con una storia che potrebbe avere molti finali e nessuno. La madre riesce a vivere, e vorrebbe che anche la figlia facesse altrettanto, somigliandole. Ma Ida segue strategie più complesse, in opposizione a quelle materne; percorsi in un labirinto senza uscita. Il fantasma del padre le riempie la vita, sigillandola come fosse la bara in cui non è stato possibile chiuderlo.
Ora che è tornata anche la casa torna a esercitare la sua tirannia: piena di oggetti inutili conservati non come ricordi ma come speranze di vite future, nelle quali ogni ogni cosa accantonata e custodita per decenni potrebbe tornare utile, secondo una strategia materna che Ida rifiuta. Una casa in cui penetra l’acqua, come accade negli incubi notturni di Ida, che si difende anche negandosi il piacere consapevole del corpo, perché niente può coinvolgerla e darle dolore se accade solo al corpo. Se succede al corpo non vale, se succede al corpo non è successo davvero. E se non si può esercitare il controllo sul passato, sui rimorsi, sull’essere sopravvissuti, al corpo si può impedire di sentire. Così anche l’amore coniugale è reticente, chiuso, anche se necessario. Mentre i giorni trascorrono riprende vita il conflitto con la madre, che a tratti però lascia aperti spiragli di piccole tenerezze, e nonostante gli scontri aspri tra le due donne i ruoli di madre e di figlia a volte si invertono. Poi accadono eventi imprevisti, incontri che costringono Ida a guardare da vicino il dolore degli altri, a vederlo, così diverso da quello che inventa per le proprie finte storie vere. E da quel punto inizia lo scioglimento, verso il finale a cui il titolo allude. In questa storia così importante ogni frase risuona con un’esattezza lancinante, che spesso toglie il respiro, e l’uso della prima persona accresce in chi legge la sensazione di cui parlavo all’inizio. Alla fine, chiuso il libro, si intuisce il perché di tanto coinvolgimento: i fantasmi che Nadia Terranova ha messo in scena sono molti, e ognuno di noi si porta dentro qualche frammento nascosto con cui fare i conti. In qualche modo tutti siamo sopravvissuti a qualcosa, a un dolore, a una lacerazione. E questo Nadia Terranova lo sa, se ha scelto come unica dedica ai sopravvissuti. A noi, che abbiamo sentito risuonare la voce potente e autorevole di questa giovane scrittrice, che dichiara di aver dato tanto di sé alla protagonista, perché “volevo un personaggio in cui stare comoda, e narrare ciò che avevo dentro, poterlo saccheggiare e trasformare. Volevo liberarmi”. (recensione pubblicata su www.letteratemagazine.it)