Femministe di un unico mondo. La mia recensione al libro di Bianca Pomeranzi su Libro Guerriero, a un anno dalla sua morte.
L’ultimo dono che Bianca Pomeranzi ci ha lasciato, con la generosità e la lucidità che sono state sempre un suo segno distintivo, è questo libro pubblicato postumo a un anno dalla sua morte.
Il suo punto di vista è quello di una femminista che ha lavorato alle Nazioni Unite e nella Cooperazione internazionale, impegnata a tessere reti e allargare spazi di confronto qui in Italia e fuori. Sappiamo che ha lavorato a lungo e finché le è stato possibile su questo libro che racchiude e rappresenta molte cose: la ricostruzione di un percorso politico personale che si è speso in istituzioni sovranazionali, e di conseguenza anche il bilancio di una vita spesa per affermare idee e posizioni politiche in cui aveva fortemente creduto; la restituzione a una memoria collettiva ormai molto distratta di quella che dal 1975 al 1995 è stata la relazione feconda tra organizzazioni di donne e movimenti femministi, e di come la loro parola abbia trovato spazio negli organismi internazionali ai massimi livelli, con l’ambizione di condizionarli e negoziare diritti vecchi e nuovi. Quel nuovo “corso” si situa all’interno del ciclo delle quattro Conferenze voluto dalle Nazioni Unite a partire dal 1975, dichiarato Anno Internazionale delle Donne: inizia dalla Conferenza di Città del Messico, dove la loro parola diventa visibile a livello mondiale; si snoda attraverso quella di Copenaghen del 1980 e quella di Nairobi del 1985 per approdare alla Conferenza di Pechino nel 1995. In mezzo a questo lungo e accidentato percorso Bianca Pomeranzi ricostruisce conquiste, inciampi, relazioni tra movimenti diversi per origini geografiche e culture di provenienza. E anche il lavoro meticoloso delle delegazioni che spesso riuscivano a strappare una singola parola da inserire in documenti ufficiali, proprio quella che avrebbe potuto cambiare la vita di milioni di donne. Ricostruisce anche parallelamente il percorso politico di tante pensatrici e attiviste fuori dalle istituzioni e il loro confronto/scontro con le stesse, nella convinzione che “il desiderio di libertà delle donne avrebbe potuto cambiare il mondo”. E se quella convinzione oggi potrebbe, a ragione, sembrare sovradimensionata nella speranza di segnare di sé la politica e influire nei processi decisionali, è pur vero che spesso ha consentito di agire conflitti e ottenere risultati concreti. Così è accaduto ad esempio nella Conferenza di Nairobi, per la voce delle tante delegazioni dei paesi dei diversi Sud del mondo che hanno fatto emergere la violenza dei processi di crescita economica in atto e i relativi costi umani e sociali; il tema delle mutilazioni genitali femminili; la violenza contro le donne che per la prima volta viene connessa alle relazioni tra i sessi e non solo alle situazioni di guerra. Uno “sguardo imprevisto” quello delle donne, perché teneva conto dell’esperienza sessuata come si presentava nelle varie aree del mondo e considerava le relazioni e i ruoli sociali di donne e uomini come strumenti per affrontare la globalizzazione. Nel corso degli anni si è delineata la doppia faccia delle rivendicazioni: quella che guardava al “tetto di cristallo” da sfondare per accedere a posizioni di potere, e quella delle reti che lavoravano sull’ecologia e sulle analisi critiche del capitalismo. Oggi, conclude Pomeranzi nella pagine finali del suo prezioso libro, questa seconda ambizione sembra destinata ad apparire debole, se non perdente, rispetto alla prima; ma il linguaggio dei diritti ha permesso ai movimenti femministi di mantenere aperta una contraddizione all’interno delle politiche delle Nazioni Unite, e quindi nel mondo. Spiragli che conviene comunque mantenere aperti. E questo ci sembra il lascito più importante che la passione di Bianca Pomeranzi ci consegna. E le siamo grate.