Le grandi signore dimenticate, Anna Banti e Le donne muoiono
Vi avevo preannunciato che avrei aperto una nuova pagina sul mio blog, Le grandi signore dimenticate, per parlare delle tante scrittrici più o meno famose le cui opere sono ormai introvabili. E che invece meritano di essere ricordate. Restituirne la voce, scrivevo. Ma proprio su questo punto mi sono scontrata con una difficoltà pressoché insormontabile: come restituirne la voce se i loro libri non sono più in circolazione se non, forse, nelle biblioteche pubbliche o custoditi con cura negli scaffali delle librerie di chi le ha amate e le ama? Dovrei raccontarvi trame? Copiare qualche brano? La mia, come ripeto spesso, è una passione di lettrice e un blog in rete non è un luogo adatto per scrivere in forma di critica letteraria. Mi è capitato più e più volte di parlare di loro (di recente per il Seminario Oltrecanone tenuto per la Biblioteca e l’associazione Melusine dell’Aquila), e le ho raccontate essenzialmente leggendo i loro testi, restituendo, appunto la forza delle loro voci. Questo lungo preambolo per dirvi che ci proverò, ma non sono sicura del risultato. Ho deciso di iniziare da quella che per me è la più grande tra le nostre Grandi Signore, Anna Banti, nome de plume di Lucia Lopresti, quella che amo di più. Probabilmente è anche la più nota tra quel gruppo nutrito di scrittrici che hanno pubblicato a partire dal primo dopoguerra in avanti. Le ha dato una certa fama il romanzo Artemisia, e molti si saranno accorti di lei all’uscita del film di Mario Martone Noi credevamo. Non restituisce la forza che ha il romanzo, come quasi sempre accade con i film tratti da grandi romanzi, ma per me è stata un’emozione leggere il suo nome nei titoli di testa (o di coda?) .
Su Artemisia ho già scritto quattro anni fa nel mio blog, e ve lo riproporrò. Ora voglio parlarvi di tre racconti tratti da una ristampa della casa editrice La Tartaruga del 1983, Il coraggio delle donne, che per me è stata la prima lettura di una scrittrice che conoscevo solo di nome. Ricordo l’emozione profonda provata, il sommovimento interiore, la difficoltà a trovare le parole per raccontare quelle emozioni. L’edizione La Tartaruga contiene alcuni racconti usciti in due differenti raccolte, Il coraggio delle donne nel 1940 e Le donne muoiono nel 1952, che vinse il Premio Viareggio. La filigrana di cui sono tessuti parla dell’amarezza di essere donna in un mondo non fatto a misura propria, ma nello stesso tempo dell’irriducibile e orgoglioso coraggio, un coraggio che diventa gesto risolutivo fondato sull’inespugnabilità dell’essere femminile, che resta fedele a sé stesso. Sconfitto, a volte, ma mai perdente.
Ma quanto ho scritto non restituisce per nulla la bellezza della sua scrittura, di cui è difficile parlare e che deve necessariamente essere letta. Alcune raccolte si possono trovare in rete, come libri vintage; è ancora in commercio il volume dei Meridiani Mondadori che raccoglie la gran parte delle sue opere, e di recente la casa editrice La nave di Teseo ha pubblicato Racconti ritrovati, una raccolta curata da Fausta Garavini che ha messo insieme una serie di racconti a suo tempo pubblicati su giornali e riviste. I racconti di cui desidero parlarvi sono tra i suoi più famosi: Le donne muoiono, Lavinia fuggita e Il coraggio delle donne. Quest’ultimo dava il titolo all’omonima raccolta del 1940, gli altri due erano inseriti nella raccolta del 1952.
Le donne muoiono è ambientato nel 2617 a Valloria, una città che sorge dove un tempo era Venezia. Accade che la popolazione maschile scopra di possedere una memoria più antica della propria, di precedenti esistenze vissute. E si scopre quindi immortale. Le donne invece non possiedono questa seconda memoria e questa differenza diventa sempre di più qualcosa che sottrae coscienza e conoscenza. Un dolore che acuisce la distanza tra uomo e donna e che li separa inesorabilmente.
“Fra poco tutti gli uomini della terra avrebbero goduto la certezza di rivivere, di perfezionare le loro predilezioni, le loro doti, in un futuro senza posa rinnovato, mentre le donne si sarebbero trovate oscure ed effimere come farfalle notturne, incapaci di oltrepassare un termine che, al confronto, sembrava imminente come l’alba del condannato a morte”. Le donne iniziano a vivere tra loro, in comunità femminili, dedicandosi a coltivare talenti artistici che gli uomini disprezzano, forti ed orgogliosi del potere dell’immortalità”. Ma un giorno accade che una di loro, Agnese Grasti, musicista trentenne, scopra qualcosa. “Sedeva al piano cercando una soluzione di nesso fra due episodi di una sua partitura, quando oppressa, come le parve, dall’afa, si lasciò distrarre da uno spontaneo movimento delle dita che ritrovarono, senza ragione apparente, il dettato di un antichissimo adagio. (…) In questa luce Agnese si sentì d’un tratto fermata e ritta, colla propria ombra ai piedi,un’ombra che non le somigliava, ma la inchiodava a un esatto riconoscersi, mentre altre ombre ne nascevano, spuntando come germogli primaverili dalla terra”.
Agnese scopre quindi di possedere anche lei, come gli uomini, la seconda memoria. Nei giorni che seguono dovrà decidere cosa fare di questa scoperta, e come affrontare la tentazione di poterla usare in maniera differente dagli uomini. Nelle tre pagine che seguono la scrittrice inventa un finale della storia lancinante, che lascia senza fiato e che non vi svelo, caso mai riusciste a procuravi una copia del racconto.
Nel prossimo articolo vi parlerò degli altri due racconti, Lavinia fuggita, ambientato anche questo a Venezia ma nel ‘700, considerato dal critico Cesare Garboli il più bel racconto di tutto il ‘900 italiano, e Il coraggio delle donne.