Le voci di Svetlana
“ Non sono sola su questo palco, ci sono voci intorno a me, centinaia di voci. Sono sempre state con me, fin dall’infanzia. Sono cresciuta in campagna. Non ricordo uomini nel nostro villaggio dopo la seconda guerra mondiale, noi bambini vivevamo in un mondo di donne. Quando calava la sera le voci delle donne del villaggio che si radunavano stanche sulle panchine vicino alle loro case ci attiravano come calamite. Nessuna di loro aveva padri, fratelli, mariti. La cosa che ricordo meglio è che parlavano d’amore, non di morte. Dicevano che li aspettavano, erano passati anni, ma loro continuavano ad aspettare (…) Flaubert si definiva un uomo-penna, io potrei dire di essere una donna-orecchio. Quando cammino per strada e colgo frasi, parole, mi dico sempre: quanti romanzi spariscono senza lasciare traccia! (…) La strada che mi ha portata fino a questo palco è stata lunga, quasi quarant’anni, da una persona all’altra, da una voce all’altra.”
Sono queste le prime frasi del discorso pronunciato a Stoccolma da Svetlana Aleksievic al conferimento del Nobel per la letteratura nel dicembre del 2105, e racchiudono il cuore, la sostanza etica del suo lavoro. Ora che ho terminato di leggere tutti i suoi libri, mi rendo conto di quanto sia difficile parlarne, perché si potrebbe farlo in venti righe, se si dovesse scrivere una quarta di copertina, oppure potrebbero servirne molte migliaia, se si vuole provare a raccontare e soprattutto trasmettere l’esperienza vissuta attraverso la lettura. Nello stesso tempo però si vorrebbe anche rincorrere la scrittrice, cercare la sua voce in mezzo alle centinaia che raccontano di guerre, di assedii e di battaglie, le voci delle donne che hanno combattuto e subìto la seconda guerra mondiale, quelle dei bambini e degli afgancy reduci dall’Afghanistan, delle madri e mogli dei morti di Cernobyl e dei sopravvissuti alla fine senza gloria del comunismo. Non è facile rintracciare le ragioni della sua voce in quel fragore di parole, dolore, lacrime, che rimbomba nei libri in cui documenta catastrofi e sopravvivenze, ma soprattutto ricostruisce la storia dell’anima delle persone. Libri traboccanti di lacerazioni.
Questa sua voce a volte la si trova nelle pagine del diario di appunti che prepara e accompagna la raccolta delle testimonianze, a volte in un prologo, o in qualche scarno commento, lasciato quasi per distrazione tra le pagine delle voci degli altri, quasi con pudore. Senza mai venire meno alla necessità di raccontare restando fedele al proprio modo di guardare la realtà. “Ho cercato a lungo…Con quali parole riferire ciò che sento? Cercavo un genere di narrazione che corrispondesse meglio a come io vedevo il mondo, a come era strutturato il mio occhio, il mio orecchio”, scrive nel diario che accompagna la stesura del libro “ La guerra non ha un volto di donna”, il primo dei suoi lavori, che per le bizzarrie del mercato editoriale è stato l’ultimo ad essere tradotto e pubblicato in Italia, nel 2015. Aveva iniziato a raccogliere materiale per quel progetto nel 1978, dopo aver esercitato per un po’ di tempo la professione di giornalista a Minsk, in Bielorussia. Quella terra aveva conosciuto durante la Seconda guerra mondiale uno spietato regime di occupazione tedesca durato tre anni, e lei aveva intervistato molti reduci; da quei primi lavori aveva iniziato a capire quello che sarebbe stato il suo destino di scrittrice: riscrivere la storia componendola come un grande romanzo corale. Solo così le sarebbe stato possibile raccontarla nella sua verità. Quello che non sapeva allora era che per tutta la vita avrebbe scritto in questo modo, raccontando la storia attraverso le storie, e che tutti i suoi lavori si sarebbero intersecati con le vicende dell’impero sovietico fino alla sua dissoluzione. Ma perché iniziare proprio cercando la voce delle donne? Prima di lei mai nessuno aveva pensato di raccontare qualcosa di così maschile come la guerra assumendo il punto di vista delle donne, prima di lei “aveva avuto corso solo una rappresentazione maschile nel silenzio delle donne”, e lei inizia ad interrogarsi su quel silenzio. Non si trattava ovviamente di semplice curiosità, piuttosto di un’intuizione che non appena messo in moto l’orecchio e l’ascolto si era rivelata giusta, perché si era svelata una guerra diversa da quella raccontata dagli uomini, densa di sentimenti, della materialità dei corpi e delle esistenze coinvolte, infinitamente più dolorosa. Così tanto da non poter più sopportare neppure il colore di un vestito rosso, o quello di una bistecca sul banco del macellaio: “Ah, mia cara, sono passati ormai quarant’anni dalla guerra, ma nella nostra casa non troverai niente di rosso. Da allora detesto quel colore”. Scrive ancora Svetlana sul suo diario: “L’argomento del mio libro non è la guerra, ma la persona nella guerra, l’anima degli eventi…che provochi nel lettore repulsione, che se ne veda la demenza”. E questo è un lavoro da donne: centinaia di testimoni dirette, ex carriste, infermiere, tiratrici scelte, sminatrici, ausiliarie, partigiane, che hanno pianto insieme a lei ricordando non soltanto gli avvenimenti a cui hanno partecipato, ma le persone che erano allora, e come sono cambiate dopo, al ritorno a casa. Da subito Svetlana Aleksievic si era imbattuta nella diffidenza degli uomini: “Ma perché, non ci sono abbastanza uomini da intervistare? Che cosa se ne fa di queste storie che le raccontano le donne? Storie di fantasia…” Quando il libo è terminato, nel 1983, trascorrono ancora due anni prima che una casa editrice accetti di pubblicarlo, e ciò avviene solo con l’avvento al potere di Gorbacev . Prima della pubblicazione si erano succeduti numerosi colloqui con gli addetti alla censura, che le avevano imposto di eliminare passaggi ritenuti poco edificanti; altri ancora li aveva eliminati lei stessa, e tutti questi brani minuziosamente annotati nel diario, entreranno a far parte di una nuova edizione del 2003. Il libro diventa in poco tempo un successo da due milioni di copie, ma lei ormai non si ferma e dal materiale raccolto mette insieme qualcosa di ancora più lacerante: è la guerra vista con gli occhi dei bambini, che diventa un libro pubblicato nello stesso anno con il titolo “Gli ultimi testimoni”, mai tradotto in Italia. Sono coloro che, adulti maturi al momento in cui veniva chiesto loro di raccontare, erano bambini negli anni del conflitto russo-tedesco: i terrori, gli stupori, le ferite e i lutti non rimarginati, il dolore innocente di un’infanzia marchiata da una guerra totale. Ma la storia sembra aspettarla di nuovo al varco.
Dopo aver ascoltato casualmente altre voci, e poi allusioni e frasi smozzicate che iniziavano a filtrare dalla impenetrabile muraglia di silenzio innalzata a nascondere la verità della guerra condotta in Afghanistan tra il 1979 e il 1989, Svetlana comincia a raccogliere testimonianze tra coloro che vi hanno partecipato o ne sono stati coinvolti, centinaia di uomini e donne protagonisti di quella tragedia che ha riguardato un milione di ragazzi e ragazze partiti per sostenere la “grande causa internazionalista e patriottica”. Quattro anni di lavoro in giro per tutto il paese ascoltando i reduci, gli “afgancy”, come erano chiamati con disprezzo usando una parola non russa i ragazzi non ancora ventenni partiti per un servizio di leva dalla destinazione sconosciuta e trasformati dalla guerra in assassini; alle loro voci si affiancano quelle delle infermiere e delle impiegate che partirono per avventura e patriottismo, ingannate dalla propaganda, e delle donne rimaste a casa: madri, mogli, vedove dolenti, impietose, stanche, incredule, travolte dai lutti o dalle tragedie del ritorno a casa di chi non ha più alcuna ragione di vita, menomato nel fisico e nell’anima. Tutti raccontano ciò che si era voluto nascondere: la tragedia di una guerra di invasione costata cinquantamila feriti e mezzo milione di vittime afgane; torture, droga, atrocità, malattie, vergogna, disperazione; e almeno quattordicimila morti rimpatriati chiusi nelle casse di zinco e sepolti di nascosto, nottetempo, in sconosciuti cimiteri dell’Unione Sovietica. Anche la scrittrice nel 1988 si reca per venti giorni in Afghanistan per toccare con mano quello che stava raccogliendo nelle sue interviste e ne torna sconvolta. Questo coraggioso lavoro diventerà “Ragazzi di zinco”, e se le argomentazioni e il modo in cui quella tragica avventura è stata vissuta dai singoli sono tante e diverse tra loro, quello che emerge dai racconti è lo stesso quadro di atrocità di una guerra perduta in partenza, uno sgomento ormai non più contenibile che alla fine travolge l’intera società sovietica e porterà al ritiro dell’Armata Rossa dal paese nel 1990. Dopo importanti anticipazioni su quotidiani e riviste di Mosca e delle Repubbliche, il libro viene pubblicato nel 1991 con l’effetto di una bomba. Il potere e le gerarchie militari non si arrendono alla verità ormai innegabile, e nel 1993 la scrittrice viene accusata di disfattismo e spionaggio e processata nel suo paese, a Minsk. Viene salvata dalla mobilitazione di intellettuali e organizzazioni per i diritti umani, ma anche dalla inconsistenza delle accuse, che nel processo risulteranno prive di qualsiasi riscontro, di aver volutamente manipolato le testimonianze. Durante l’ultima udienza risuonano le parole della scrittrice, alte e forti, che riassumono il senso di quel suo lavoro: “I libri che scrivo sono al tempo stesso dei documenti e anche l’immagine che io ho della mia epoca. Raccolgo dettagli, sentimenti che non appartengono solo a una singola esistenza ma sono anche nell’aria del tempo, nelle sue voci, nel suo spazio. Io non invento, non estrapolo, ma organizzo il materiale che mi fornisce la realtà. I miei libri sono le persone che mi raccontano e io stessa, col mio modo di vedere il mondo e di considerare le cose. Lo scrivere è una professione ed è un destino; nel nostro sventurato paese è più un destino che una professione”. Destino, ma anche tentativo di capire come gli eventi siano in grado di trasformare le persone: “Poi però siamo tornati cambiati. Con la voglia di raccontare la verità Aspettavo solo che qualcuno cominciasse, mi dicevo che prima o poi sarebbe successo…laggiù abbiamo capito che ci avevano ingannati. E ci siamo messi a pensare: come mai ci siamo lasciati ingannare così facilmente?”. Anche nell’aula del Tribunale Svetlana non rinuncia ad interrogarsi su ciò che non smette di assillarla: “La domanda che pongo è ancora una volta quella del libro: chi siamo dunque? Come mai di noi si può fare ciò che si vuole?…” Le risposte non sono univoche, e suscitano a loro volta altre domande, ma d’altronde compito della letteratura non è dare risposte, sembra volerci dire, ma porre interrogativi e aprire squarci sulla realtà. Anche questo libro, come il precedente, è corredato dai diari e dagli appunti preparatori, e come quello sarà destinato a non aver mai fine perché nuove persone la cercheranno per aggiungere la propria storia, o nuovi particolari che nella precedente intervista erano stati taciuti per pudore o per timore.
Nel 1993, già dentro la nuova storia di un nuovo Paese, esce “Incantati dalla morte”, che racconta di coloro che si sono suicidati o hanno tentato il suicidio non riuscendo a sopportare la scomparsa del mondo sovietico e delle idee che lo sorreggevano; dei tanti che si erano identificati totalmente con quelle idee e avevano voluto seguirne la sorte; di chi non aveva trovato la forza di accettare quel nuovo mondo. Il libro, che si basa sul dato reale dell’aumento vertiginoso dei suicidi nella Russia dei primi anni Novanta, echeggia dei racconti di chi al suicidio è sopravvissuto o di chi ha assistito inerme alla scomparsa di persone care. Per la maggior parte sono voci femminili a tratteggiare quest’amara topografia del disincanto e della disillusione, rinsaldando quella vicinanza e solidarietà che la scrittrice intrattiene con il mondo femminile, reso a lei ancor più caro per il suo ruolo escluso dalla storia con la S maiuscola, ufficialmente agita e raccontata da uomini e per uomini. La morte come promessa di liberazione è l’unico elemento che accomuna le storie, altrimenti molto diverse l’una dall’altra, non legate dalla medesima esperienza di vita, come era stato per i libri precedenti: “non un coro, come è stato altre volte, ma singole voci solitarie… Ognuna con un grido diverso… Ognuna con un suo segreto…”. Il quadro è quello di una solitudine assoluta contro cui nulla possono la famiglia, le amicizie, gli amori, poiché si tratta dell’abbandono di una dimensione collettiva, di un mondo intero che si è inabissato lasciando il passo a un realtà ignota, regolata da altre leggi, da altri rapporti umani, che ormai nulla più hanno a che vedere con quello che era stato il grande sogno, la fiducia in un futuro migliore per il quale combattere, soffrire, sopportare ogni avversità. Attraverso la voce disperata di queste persone riecheggia ancora una volta, la solita domanda, quella già incontrata nei suoi libri precedenti: “Cosa ci è capitato? Chi siamo dunque? I figli di una grande illusione o le vittime di una psicopatia di massa?”. Ancora una volta le risposte sono lasciate a chi legge.
Nel 1997 Svetlana Aleksievic dà alle stampe Preghiera per Cernobyl, dieci anni dopo l’esplosione della centrale nucleare in Ucraina. Per almeno tre anni circa 600.000 “liquidatori” hanno lavorato alla ripulitura della zona dell’incidente, e delle loro vicende, insieme a quelle di contadini, soldati, bambini, abitanti delle zone contaminate, vuole dare conto il libro. Costruito attraverso tre anni di interviste a dipendenti della centrale, scienziati, donne e uomini che hanno dovuto abbandonare a forza le loro case, da deportati, e quelli che invece sono rimasti a dispetto dei divieti e della paura, si snoda lungo centinaia di pagine il racconto di un orrore mai vissuto prima, come i bambini nati con tremende malformazioni di cui non c’era mai stata traccia negli annali della medicina. “Ogni cosa viene denominata per la prima volta, e il suo nome pronunciato a voce alta. E’ accaduto qualcosa per cui non abbiamo ancora un sistema di rappresentanza, ed è perfino inadatto il nostro vocabolario”, scrive l’autrice nel prologo Intervista dell’autrice a se stessa sulla storia mancata. “Questo libro non parla di Cernobyl, ma del suo mondo. Proprio di ciò che conosciamo di meno. La storia mancata…A interessarmi non era l’avvenimento in sé, ma le impressioni, i sentimenti delle persone che hanno toccato con mano l’ignoto (…) Cernobyl è un enigma che dobbiamo ancora decifrare, forse è una sfida lanciata al futuro”.
Per la prima volta accanto alle voci delle persone Aleksievic registra la catastrofe subita dal paesaggio naturale, dall’ambiente rurale e urbano resi inabitabili per sempre, ma nonostante tutto il libro si apre con la storia d’amore della giovane vedova di un vigile del fuoco che comandava una delle prime squadre di soccorso: nel suo racconto la vita di prima e quella dopo la catastrofe si mescolano, il ricordo dei giorni felici con la lenta agonia dell’uomo dopo la contaminazione radioattiva, il disfacimento inesorabile di un corpo che va in pezzi, e la quotidianità della cura prestata dalla donna all’amore della sua vita; una cura che non si ferma davanti a nessun divieto e che la espone al contagio trasmettendolo al bimbo che da poche settimane portava in grembo e che morirà poche ore dopo la nascita. “Ciò che abbiamo vissuto…Che abbiamo visto…La gente non vuole sentir raccontare della morte. Dell’orrore…Io però le ho parlato dell’amore…Di come amavo…” . La forza dei racconti è tale da sovrapporsi a tutto ciò che sapevamo, o credevamo di sapere, del disastro di Cernobyl, cancellandone l’aspetto “scientifico” e perciò quasi asettico per restituirlo alla dimensione dell’ignoto futuro a cui l’umanità potrebbe andare incontro. Una preghiera dolente, che non è rivolta solo a quel luogo lontano dell’Ucraina ma all’intero pianeta.
L’ultimo libro scritto e pubblicato sia in Russia che in Italia è Tempo di seconda mano: la vita in Russia dopo il crollo del comunismo. Costruito come i suoi lavori precedenti, in oltre vent’anni di ascolto in tutto il paese, Aleksievic mette insieme un monumentale racconto corale di oltre 700 pagine che ricostruisce il passaggio epocale tra due mondi e il modo in cui si è trasformata la vita nella Russia dal crollo del comunismo fino ai nostri giorni. Nel prologo la scrittrice sembra voler spiegare qui più che nei suoi precedenti lavori le ragioni di questa nuova indagine: “Che ci è successo quando l’impero è crollato? Il tempo della speranza è stato rimpiazzato dal tempo della paura. Il tempo è tornato indietro e il futuro si è spostato da dove dovrebbe essere(…). Oggi rinascono idee di vecchio stampo, quella del grande impero, del pugno di ferro, della peculiare via russa…Siamo entrati in un tempo di seconda mano”. E nel grande affresco di voci si intuiscono i rivoli attraverso cui dopo i giorni delle grandi speranze “si è scivolati in un tempo in cui anche le parole hanno perso il loro significato. Quando il mondo si poteva dividere tra buoni e cattivi, parlare di denaro era qualcosa di sconveniente, ora il denaro sembra essere diventato l’obiettivo principale della vita (…), quello che ieri era reato ora è considerato business”. Ciò è accaduto perchè, scrive Svetlana Aleksievic, “quando negli anni novanta ci siamo chiesti che paese volevamo essere, un Paese forte o un Paese degno, abbiamo scelto la prima alternativa”. Rivoli, particolari in apparenza insignificanti, ma capaci di aprire squarci sulla realtà, come il cenno alle librerie antiquarie ormai traboccanti di collezioni di libri bellissimi, svenduti dagli intellettuali; e non tanto per bisogno di denaro, ma perché i libri non erano più in grado di insegnare niente in questo nuovo tempo. Un totale capovolgimento di senso che ha lasciato privi di punti di riferimento milioni di persone, “perché non eravamo preparati, nessuno ci ha insegnato la libertà. Ci hanno soltanto insegnato come morire per essa”. E se può appartenere all’ordine delle cose che questa mancanza di senso riguardi le persone più anziane, è molto più inquietante lo spaesamento delle generazioni più giovani, quelle che stanno riscoprendo i vecchi simboli di regimi che non hanno conosciuto ma verso i quali sembrano provare uno straniante rimpianto. Nell’ultima parte del libro sono raccolte le voci dei ragazzi e delle ragazze che hanno manifestato nelle piazze della Bielorussia contro le elezioni truccate dall’oligarca Lukasenko. Giovani che stanno spavaldamente imparando ad entrare ed uscire dalle prigioni del regime: “In fin dei conti è il nostro paese, i nostri diritti sono sanciti dalla nostra Costituzione. Siamo la prima generazione non vittima della paura. E se ci mettono dentro per quindici giorni? E che sarà mai? Avrai qualcosa da scrivere sul tuo blog (…) Per ogni evenienza avevo messo nello zaino una tazza, un maglione caldo e due mele…”, dice una ragazza.. Il libro si chiude con il capitolo “Osservazioni di una donna comune”, il racconto di una vecchia contadina, immobile nel tempo, che è stata testimone di tragedie e crolli di ogni genere; per lei niente sembra avere importanza, le stagioni si alternano come sempre, la terra nutre fiori e patate, e questa sembra essere la sua unica certezza. Sta a noi, ancora una volta, stabilire connessioni e trovare risposte. E una volta chiuso il libro si prova l’imprevedibile sensazione che in queste settecento pagine la scrittrice non abbia raccontato solo la Russia, ma che la sua ricerca di senso e di risposte ci riguardi molto da vicino. Molto più di quanto non sembri. E riandando alla fine con il pensiero agli altri suoi libri ci sembra di capire proprio questo: che le voci di Svetlana abbiano tutte insieme parlato anche di noi. Da qualche anno Svetlana Aleksievic è tornata a vivere in Bielorussia, dopo dodici anni di volontario esilio all’estero. Il regime ha tentato di oscurare il suo lavoro, e anche la conquista del Nobel è passata sotto silenzio nel suo paese. Ma lei non se ne preoccupa più di tanto. Ora ha un nuovo progetto, sembra: scrivere un grande libro sull’amore, e questo potrebbe rappresentare il suo personale sguardo gettato verso il futuro.
Bibliografia
La guerra non ha un volto di donna, pagine 420, Bompiani 2015
Tempo di seconda mano, pagine 770, Bompiani 2014
Preghiera per Cernobyl, pagine 350, e/o 2002, 2015
Ragazzi di zinco, pagine 316, e/o 2003, 2015
Incantati dalla morte, pagine 257, e/o 2005