Rigopiano. Una notte, la montagna
Una notte, la montagna.
Quel giorno così grigio da sembrare sospeso sull’orlo della sera era stato annunciato da una notte ancora più nera delle precedenti, stretta dentro un buio che a tratti sembrava illuminarsi per la neve che si rovesciava giù dal cielo e si ammucchiava per poi distendersi sempre più alta come un sudario. Anfratti e alberi, ripari e rocce, tutto appariva come imprigionato in un silenzio immobile, solo a tratti percorso da sussurri impercettibili .
“Ho perso la strada del bosco” , disse la volpe dirigendosi verso le tenui spirali di fumo che salivano su dal paese, più a valle. Ogni traccia di sentiero era scomparsa e anche gli odori sembravano essersi smarriti dentro quel bianco opalescente. Si aggirò nei pressi delle case, guardò dentro una finestra illuminata da qualche candela, poi si acquattò nel fondo di una legnaia dopo aver scrollato via dal mantello la neve che cominciava a ghiacciarsi. Si addormentò, e sognò. Sognò la montagna che parlava e urlava, come mai l’aveva sentita e nel sogno ebbe paura.
Più in alto, dove le faggete erano così fitte che persino l’ àstore faticava a regolare il suo volo, un branco composto da tre lupi scendeva silenziosamente la montagna aggirando l’orlo del bosco, proprio sul margine del vecchio canalone che scorreva come argento vivo sotto la pelle della terra. Fiutavano l’aria con il muso alzato verso i fiocchi densi, e poi tornavano a guardarsi intorno, incerti sul cammino. Si fermarono.
“Ascolta, sento un fremito che corre dentro le vene profonde del bosco.”
“Gli alberi si piegano, come tormentati dal vento.”
“Ma non c’è vento… qualcosa si muove lassù in alto…”
I lupi rimasero in ascolto, assorti, poi si allontanarono a testa bassa, tagliando il costone in diagonale, e risalirono i fianchi della foresta puntando a nord, dentro un mormorio incessante che come un brivido gorgogliava dalle profondità più scure, e si propagava alle zampe, spingendole ad accelerare il passo.
Appena dopo l’alba la bambina si svegliò nella casa buia con un grido che lacerò l’aria.
“Ho sognato un lupo”, disse piangendo alla madre che cercava a tentoni di illuminare la stanza con un mozzicone di candela avanzato dalla sera prima.
“Ora ti scaldo una tazza di latte sulle braci del camino, anche oggi dovremo arrangiarci così, come si faceva un tempo nei paesi di montagna, quando non c’era gas né corrente elettrica. Ma tu raccontami del lupo che hai sognato”.
“Era un lupo, ma anche un po’ volpe. Mi parlava con una voce uguale alla mia, voleva portarmi con sé, diceva. Vieni, diceva”.
“I lupi non portano via le bambine, lo sai che sono favole, vero?”
“Ma lui non voleva farmi del male, diceva che voleva portarmi in salvo. Via da qui.”
“Dormi, è ancora presto. Andrò al lavoro, se hanno liberato la strada, ma verrà la vicina a vedere se hai bisogno di qualcosa.”
La donna si allontanò ma prima cercò con lo sguardo lassù, verso la montagna. Non vide altro che neve , una distesa compatta che scendeva dai cieli più alti fino a terra. Con un brivido si calcò il cappello di lana a coprire la fronte e le orecchie. Pensò al sogno della sua bambina e decise di tornare a casa.
Quando rischiarò un poco e venne giorno si vide che la neve aveva costruito muraglie impenetrabili tutto intorno al paese. E nessuno poteva più entrare né uscire da quella prigione stregata. La bambina guardò fuori dai vetri e salutò con la mano la volpe che le sorrise e si mise a frugare con il muso nella neve in cerca di cibo, finché la donna non aprì di nuovo la porta e le porse qualche avanzo di cibo e di frutta.
In alto sulla montagna, dalle creste più inaccessibili, un branco di camosci si affacciò all’orlo dei burroni e guardò giù. In fondo al canalone la sagoma del grande edificio ricoperto dalla neve quasi non si vedeva più; appena un baluginare di vetro nell’aria bianca. Si ritrassero allarmati, mentre la terra sobbalzava e tremava spinta dai recessi più profondi. Più e più volte. Poi, quando tutto sembrava ormai essersi quietato ed era sceso il silenzio, un nuovo lungo brivido scosse la montagna dalla cima. I camosci rimasero immobili, aggrappati agli speroni di roccia, mentre accanto a loro la terra mescolata con la neve e il ghiaccio cominciò a scivolare lentamente a valle, poi sempre più veloce; trascinava nella sua corsa rocce e pietre e alberi, giù lungo il sentiero scavato dal tempo, ritrovando la memoria di antichi cammini.
Che si salvino almeno i cuccioli degli uomini e degli animali, disse lo spirito della montagna risvegliandosi dal sonno, urlando dentro il fragore della valanga.
E così accadde che due grandi cani montanari sbucarono dalla massa bianca e scesero correndo a valle, forse per chiamare aiuto, ma solo dopo essersi accertati che i loro cuccioli fossero al sicuro, protetti da mura solide; intanto la voce di una madre si levò a chiamare, ostinata, nel buio immobile, per consolare altri cuccioli e infondere loro coraggio. Per molte ore ancora la vita sulla montagna rimase abbracciata alla morte, e non si distinguevano l’una dall’altra; poi si sciolsero dall’abbraccio e ripresero ognuna la propria strada. E allora nel grande silenzio ogni cosa, animali e umani, alberi, rocce, neve, ogni cosa ritrovò il proprio posto. Dentro la morte o dentro la vita.