Unite Rompiamo il silenzio. “Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla”
Sto viaggiando nel pullman per Roma. Al terminal prenderò la Metro B e mi unirò al corteo, una marea di corpi, sento dire. E’ il 25 novembre, ma per me è anche il 19 marzo 1980, quando avevo raggiunto Roma insieme a centinaia di donne per depositare in Parlamento le firme raccolte a sostegno della proposta di legge di iniziativa popolare promossa dall’UDI, dal MLD, dal Collettivo Pompeo Magno. Ne servivano 50.000 ma ne arrivarono 300.000 per una proposta di legge che scardinava l’impianto patriarcale della normativa in vigore: la violenza sessuale non più un reato contro la morale ma contro la persona, la procedibilità d’ufficio, la punibilità del coniuge violento, la costituzione di parte civile dei movimenti delle donne nei processi. Sarebbe cambiato tutto! Ricordo l’allegria di quel mattino, i sorrisi e gli abbracci, la gioia, le gonne a fiori e le mimose tra i capelli.
Ma fu un’illusione. La discussione parlamentare si trascinò per sedici anni e cinque legislature. Il patriarcato dei partiti di ogni colore si coalizzò contro le donne, tutti uniti.
Intanto il tempo passava e la violenza cambiava di segno: non si temevano più le strade buie ma le mura domestiche. Dove bisognava salvarsi da sole, dove nessuno sarebbe arrivato in soccorso. Era difficile anche trovare le parole per nominarla quella violenza così atavica, che sembrava passare di madre in figlia, che non avresti mai immaginato sarebbe arrivata in eredità anche a te. Lui che era geloso delle tue amiche, della tua libertà, della tua allegria. Ti ho vista, fuori, ridevi. Solo in casa non ridi mai…E aveva gli occhi cattivi, stringeva i pugni. Come si volesse trattenere ma non ci riusciva e tu non capivi. Lui che ti diceva che non sapevi pulire casa, che per quel lavoro che ti avevano offerto non saresti stata capace, non eri adatta. Poi hai capito. E hai cominciato a guardare con altri occhi le donne per strada, in cerca di qualche traccia di quello che accade tra le mura domestiche, in quei luoghi in cui l’odio diventa urla e mani pesanti che feriscono, nell’indifferenza del mondo e nella solitudine. I segni sul corpo vengono nascosti dagli abiti invernali, quelli sul viso ricoperti da fondotinta e fard, lenti scure anche se del sole non c’è nemmeno l’ombra.
Hai imparato a scrutare quei volti e a immaginare e scrivere storie che raccontassero l’indicibile delle mura domestiche. In quale casa sta tornando questa donna con i capelli disordinati e le occhiaie, e quest’altra, che cammina leggera senza guardarsi intorno, ma forse rallenterà il passo prima di rientrare, perché là dentro tutto si è fatto soffocante, aria stagnante, e lei gliel’ha detto che la loro storia è finita, ma lui non ne vuole sapere. E ogni giorno è una lotta, solo per esistere. Molte di loro hanno paura; altre no, non arrivano ad immaginare un epilogo tragico: non mi farebbe mai del male, uno schiaffo ogni tanto, e mai in presenza dei bambini, si può sopportare per quieto vivere; si limita a dire che non valgo niente, che sono stupida, ma non me ne importa. Purché se ne vada, può credere quello che gli pare.
Eppure accade. E lei lo guarda quasi con stupore quando accade. Prima della fine. Prima dell’ultima volta. Se le case potessero parlare, se le mura si ribellassero, se mandassero segnali…Se urlassero No! Stai attenta, non ci cascare. Proteggiti. Scappa. Infila la porta e urla. Corri veloce. Chiedi aiuto. Oggi a Roma siamo mezzo milione, mai state così tante. Il femminicidio di Giulia Cecchettin ha provocato una tempesta di rabbia che scuote le coscienze. Che chiama in causa i maschi e la cultura che li nutre e protegge come dentro un bozzolo velenoso. Così ad ogni generazione ne crescono di nuovi. Come le male piante. Ma tu parla, non pensare che sia inutile farlo. Proteggiti, non sei sola. Chiedi aiuto, c’è un numero di telefono che puoi chiamare sempre, è il 1522. Mettiti in salvo.